“The Dead Light” è il sesto album dei Fen e, come da tradizione, segna una nuova ricalibrazione del loro sound, vera costante del gruppo inglese, che ha saputo percorrere diverse strade espressive, pur rimanendo chiaramente nel solco del black atmosferico.
Formato nel 2006, il trio ha da sempre utilizzato il codice del black metal atmosferico come mezzo per attirare l’ascoltatore in viaggi sonori attraverso paesaggi di desolazione e rimembranza, similmente agli scenari naturali da cui prende il nome.
Band assolutamente di spicco nel panorama d’avanguardia della scena black britannica, in una carriera di poco meno di 15 anni i Fen hanno scritto pagine memorabili del genere, cesellandone gli elementi essenziali, lungo i contorni di album sempre ben connotati da un’idea e una simbologia di fondo. “Questa volta abbiamo accettato la sfida creativa di dire di più in meno tempo”, afferma il cofondatore e leader The Watcher, e in effetti i brani paiono meno dilatati, manifestando un approccio più diretto e orientato al riff, che incorpora il suo particolare gusto melodico in strutture dove il groove la fa da padrone.
Ciò non significa che i Fen abbiano perso il proprio caratteristico mood atmosferico, ma, sopratutto rispetto al precedente “Winter”, né suggerisce strutture meno diluite. Il risultato è un suono descritto dal front-man come spettrale, più freddo, più nitido, che si traduce anche in testi riguardo la ricerca della conoscenza, simboleggiata dal nostro sguardo verso le stelle: “quando guardiamo il cielo viaggiamo nel passato, e vediamo letteralmente una luce già morta, il bagliore lontano di pianeti esplosi, civiltà annientate”.
La tematica del solitario testimone al passaggio del tempo è una delle più care, nella poetica di Frank Allain, sin dall’album di debutto (2009), e non è infatti un caso che tale concetto apra il disco, con il lento incedere di “Witness”, a far da punto di contatto e collante fra i due ultimi album.
La bipartita title track esprime invece al meglio le succitate novità del lavoro, con un riffing frastagliato, angolare e ritmiche incalzanti, memori, per certi versi, dei Voivod più melodici (“Nothingface”, “Angel Rat”). “Nebula”, primo singolo scelto e già diventato uno dei pezzi preferiti nei live-set del trio, è invece un brano costruito su melodie portanti algide e malinconiche, che suscitano sensazioni di reminiscenza e ricapitolazione di una vita. Il resto dell’album si muove con scioltezza fra queste coordinate, alternando dinamicamente momenti più tirati e metallici e altri votati all’atmosfera, in tipico stile Fen, con momenti particolarmente riusciti e intensi, come nella titanica “Labyrinthine Echoes”.
Rispetto al precedente “Winter”, che avevo nel complesso mal digerito, anche a distanza di tempo, a causa della sua a mio parere vaga indeterminatezza (forse in parte figlia anche del contratto in scadenza con Code666), “The Dead Light“, prima opera nel prestigioso roster Prophecy Productions, recupera piglio ed energia, risultando complessivamente più lucido e ispirato, in grado di assolvere efficacemente al suo intento comunicativo ed evocativo, pur senza stravolgere i contorni di un sound che è diventato, negli anni, ben riconoscibile e identitario della proposta targata Fen.
Un ritorno assai gradito, per chiudere l’anno scrutando il bagliore delle stelle nel freddo cielo invernale con un sottofondo quantomai adatto.
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