Wear Your Wounds è un progetto musicale creato dal fondatore dei Converge Jacob Bannon. Inizialmente concepito come un progetto solista, dove riversare anni di registrazioni lo-fi, più o meno improvvisate, si è progressivamente evoluto in una band vera e propria, che consta di cinque elementi.
Nel 2017 è stato rilasciato l’album di debutto“WYW”, che contiene dieci canzoni emozionanti, in grado di richiamare alla mente le tendenze più lente ed epiche dei Converge, così come l’approccio stratificato e caleidoscopico di Swans e altri artisti simili. È stata quindi riunita una band dal vivo per numerosi spettacoli tra cui Roadburn Festival 2017 e Desert Festival UK. Più tardi quell’anno fu pubblicato “Dunedevil“, un album sperimentale associato all’omonimo libro di arte visiva astratta di Bannon.
“Rust on the Gates of Heaven” è a tutti gli effetti il secondo full-length stand-alone della band, e segna per la prima volta la piena collaborazione alla scrittura della formazione ufficiale della band: Jacob Bannon (Converge), Mike McKenzie (The Red Chord, Stomach Earth, Unraveller), Adam McGrath (Cave In, Nomad Stones), Sean Martin (Twitching Tongues, ex-Hatebreed), e Chris Maggio (ex-Trap Them, ex-Sleigh Bells).
L’album è permeato da un senso di epica decadenza e delicata malinconia, proprio come una patina rugginosa, che lentamente si diffonde su uno scheletro metallico. I brani sono spesso molto dilatati e cadenzati (“Mercifully”, “Truth is a Lonely Word”), e gli sporadici riff distorti funzionano come accecanti deflagrazioni nella notte, che lasciano intravedere per un attimo i reali contenuti del campo visivo, talvolta salvifici, altre miserevoli (“Lurking Shadow”).
Le tonalità plumbee e un monicker, Wear Your Wounds, scelto assolutamente non a caso, evocano un malessere esistenziale situato in un non-luogo dove i Converge potrebbero incontrare il doom albionico di gente come Paradise Lost o My Dying Bride. Senza screaming o stage-diving l’impeto HC è tenuto a freno, ma la rabbia e la potenza espressiva della band resta lì, come uno spettro.
Ipoteticamente equivalente, per senso e sensibilità, alla musicalità intimista e minimale dei natural born losers dell’America rurale e senza speranze, come Townes Van Zandt o Blaze Foley, in un’epoca antecedente al meth, ma altrettanto gonfia di alcool, questo progetto di Jacob Bannon ci parla della maturità, di un uomo e di un artista, e della necessità autentica di ricapitolazione e meditazione, osservando la ruggine sui cancelli del paradiso.