Handful of Metal #7

Falls of Rauros – Patterns in Mythology

Il quinto full-length edito dai Falls of Rauros, intitolato “Patterns in Mythology”, intende essere sia un’espansione di ciò che è stato esplorato e narrato nel precedente, validissimo, “Vigilance Perennial”, sia una deviazione verso una direzione leggermente diversa.

Prodotto e mixato da Colin Marston, questa nuova opera è con tutta probabilità la più complessa e la meno immediata nella carriera della band, pur senza abbandonare le basi su cui si è costruita la sua identità, cioè black metal atmosferico, che opera costantemente su intelaiature melodiche spesso derivanti dal folk, tradizionale e moderno.

Tematicamente invece “Patterns in Mythology” tocca i ripetuti fallimenti dell’umanità e l’incertezza e la vulnerabilità che ne conseguono. Personalmente ritengo che l’album precedente del gruppo del Maine mostrasse un song-writing più ispirato e passionale, mentre questi brani, per quanto lucidamente composti, mi paiono leggermente di maniera, meno di cuore e più ragionati.


Pelican – Nighttime Stories

Formati originariamente come mero side project della band avant-grindcore Tusk, i Pelican sono velocemente diventati uno dei gruppi cardine della scena heavy me(n)tal o post-core, dominata, nei primi anni 2000, dagli Isis di Aaron Turner.

La particolarità dei Pelican è sempre stato l’approccio integralmente strumentale, che garantisce al sound un respiro e una meditatività molto tipici, in grado di spaziare, come un’atmosferica colonna sonora distorta, dallo sludge all’ambient.

Nighttime Stories”, sesto album sulla lunga distanza, contiene alcuni dei loro riff più duri e pesanti di sempre, che si avvicinano molto all’era precedente a “Fire in our Throats” (2005), lasciando dunque in secondo piano la componente più rarefatta e delicata del sound.

La scelta è a mio avviso vincente, in quanto il potenziale espressivo ed evocativo della band risulta ingigantito dal muro di suono qui prodotto, con un tasso epico e drammatico di tutto rispetto, sopratutto in considerazione della mancanza dell’aspetto lirico. Un’ottima uscita, per gli amanti del genere e non.


Dom Zły – Rytuał

Esponenti della recente ondata di band polacche accomunate dalla ricerca e sperimentazione sonora applicata al black, come Thaw, Furia, Kły e Mord’A’Stigmata, i Dom Zły possono a buon diritto includere il loro “Rytuał” al pari dei lavori delle suddette band. Al netto di similarità e differenze, ciò che importa è sempre il valore dei brani, e questi non hanno proprio nulla da invidiare.

Rispetto ai succitati connazionali i Dom Zły paiono forse più attaccati a un’espressività prettamente black, sopratutto nello screaming e nelle tonalità glaciali di fondo, ma la composizione, sia ritmica che melodica, palesa una buona ricerca e si avvale di ottime intuizioni, che, con semplicità e immediatezza, dimostrano come sia possibile produrre un album decisamente ispirato ed espressivo, senza per questo sovrabbondare in istrionismi, spesso fini a se stessi.


Hyalithe – As if Sunlight could Warm the Deceased

Inaspettato e sorprendente, Hyalithe altro non è che il nuovo progetto di Jori Apedaile, tutto fare della one-man band Eneferens, che in tempi recenti ha fatto ben parlare di se, operando nel solco del black atmosferico e naturalistico, con un tocco intimista e individualista.

Con tutta evidenza il musicista del Montana ha scelto di riversare in questo contenitore la parte più grezza e cruda della sua espressività. Infatti “As if Sunlight could warm the Deceased” porta alla mente i dischi USBM delle origini (Leviathan e Krieg su tutti), con partiture semplici ma dal sicuro impatto, garantito da ingenti dosi di livida aggressività.

Non è dato sapere se questa uscita avrà una continuità, oppure se si tratta di un one-shot, ma comunque il risultato, lungi dall’essere di per se innovativo, è comunque assolutamente godibile e piuttosto fresco, nella sua primordialità. Ben fatto Jori.


Psicosfera – Beta

La senti? La voce dell’infinito che batte nei nostri cuori neri? Gli antichi orrori che nutriamo dentro di noi urlano nelle nostre orecchie, prima di proiettarsi attorcigliate fuori dalle nostre casse toraciche, verso il chiaro di luna.

Questa colorita presentazione, a cavallo fra H.P. Lovecraft e Ridley Scott, è tratta e tradotta da un commento sulla pagina Bandcamp degli Psicosfera, a rappresentare l’alto tasso evocativo e suggestivo del combo argentino, fautore di un black completamente strumentale e dal piglio avanguardistico.

Beta”, loro secondo album (il primo, giustamente, è “Alpha”, 2015) abbraccia appieno un’estetica da incubo multi-dimesionale, con un diluvio di riff strazianti, melodie sghembe e un’inquietante e avvolgente atmosfera ombrosa.

A livello strumentale il sound degli Psicosfera è ancorato ad un drumming straordinario, che fa da spina dorsale mutante al riffing intricato delle due chitarre, ispirate dagli esponenti più tecnicamente validi del genere (Deathspell Omega su tutti), pur senza sfociare all’ovvio citazionismo derivativo.

Ennesimo bel colpo discografico per la milanese Avantgarde Records, che anche in questo 2019 ci fa dono di pubblicazioni notevoli, di qualità costante e sempre con qualche particolarità a distinguerle dalla massa.

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