Sekirō: Shadows Die Twice

A pochi giorni dalla sua uscita il nuovo titolo From Software è già stato universalmente acclamato come una delle opere più significative di questa generazione videoludica. Del resto è esattamente quello che ci si aspettava dalla SH da cui il fenomeno dei souls-like è nato. Dalla preistoria procedurale di King’s Field, all’approdo su PS3 con Demon’s Souls, fino alla lenta ma non per questo meno impressionante consacrazione, avvenuta coi Dark Souls (specialmente il primo) e il lovecraftiano Bloodborne.

In un momento storico in cui pare che il paradigma vincente (commercialmente parlando) per i videogame sia l’approccio casual e la portabilità, con Sekirō: Shadows Die Twice la nipponica From Software produce un titolo che non diventa assolutamente più inclusivo o accessibile, ribadendo anzi il proprio attaccamento a quello che, a torto o ragione, rappresenta l’archetipo dell’hardcore gaming applicato all’azione: un titolo dove lo studio degli avversari e la perfetta applicazione di tutte le tecniche e abilità messe a disposizione sono il fulcro stesso dell’esperienza.

Trattasi infatti di un gioco dichiaratamente intransigente, con una curva d’apprendimento notevolmente verticale, e un approccio conoscitivo basato su un punitivo trial-and-error, che premia l’allenamento e la forza di volontà, atte ad ottenere la perizia tecnica necessaria a padroneggiare un combat system tanto veloce e raffinato, quanto spietato.

L’impronta autoriale del team di sviluppo capeggiata da Hidetaka Miyazaki è da subito forte e distintiva, a partire dal certosino studio del level design, qui ancora più importante, grazie all’incorporazione dell’elemento stealth, ereditato da un vecchio ma indimenticato brand della SH, ovvero Tenchu, con cui Sekiro condivide anche l’inquadramento storico, il periodo Sengoku (戦国時代), o periodo degli stati belligeranti (1467-1603), un’epoca in cui il Giappone era diviso in piccoli feudi in guerra tra loro, qui riprodotta con cura certosina, a livello architetturale, militare e artistico, garantendo quindi un’immersività totale, fermo restando l’approccio fantasy di base.

Le abilità caratteristiche del ninjitsu, sia fisiche che magico/esoteriche, ampliano infatti esponenzialmente la giocabilità (e giocosità) del titolo, sia a livello di movimento spaziale che di esplorazione, estendendo le mappe, già di per se vaste e strutturate, anche nella dimensione verticale, utilizzando il rampino, tool di base del braccio prostetico.

Ed è proprio quest’ultimo il fondamentale strumento di raccordo narrativo e di gameplay, un’articolazione artificiale che permette un susseguirsi di approfondimenti nella lore e personalizzazioni nelle build, che sopperiscono alla mancanza della gran parte della parametria tipica dei souls, così come gli elementi squisitamente GDR e fashion-souls, venuti fisiologicamente meno, in un’opera molto più orientata all’azione e alla narrazione lineare.

Sekiro infatti mostra una trama molto meno criptica e frammentata, sia per il minor ricorso alla narrativa silenziosa ed ambientale, tipica di From Software, sia per il ricorso a NPC più responsivi e interattivi.

L’affascinante alone di mistero che sottende la scoperta del mondo di gioco non è affatto scomparso come le nebbie dei boss, ma è posto in secondo piano, legato a doppio filo alle molteplici simbologie e mitologie orientali, citate o rielaborate, che fanno della realtà storica qui rappresentata un mondo oppresso dal peso della propria stessa fine, in modo non dissimile dall’era del fuoco e del sangue, ma più dichiaratamente aderente alla sfera dello spirito.

Nonostante le differenze dai titoli precedenti siano tante e sostanziali, è d’altro canto indubbio come Sekiro si ponga in continuità, raffinando e specializzando un certo modo di fare videogame.

Impersonare il Lupo Ferito (Sekirō in giapponese significa letteralmente lupo mutilato: 隻狼) e seguire le sue sanguinose gesta, immerse in un Giappone feudale intriso di nobiltà e miseria, magia e superstizione, perfettamente reso dai vivaci cromatismi e dai particellari del motore di gioco, non trascendentale, ma adatto allo scopo, è infatti un’esperienza sempre intensa e dotata del giusto mordente di tensione drammatica, vuoi per la difficoltà insita nel processo, vuoi per la qualità di tutti gli elementi che la compongono, solidificandosi in un livello di sfida costante e arduo da scalfire, anche con il più temprato degli acciai.

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